Il traditore di Marco Bellocchio

Italia, 2019

148 min.

Nella Sicilia degli anni ’80 esplode la guerra tra cosche mafiose per il controllo del traffico  della droga. Tommaso Buscetta, boss latitante in Brasile, viene rintracciato ed estradato in Italia.  Interrogato dal giudice Giovanni Falcone, decide di fare i nomi e rivelare il funzionamento  dell’apparato criminale. Il maxiprocesso che segue fa emergere clamorosi sospetti di collusione tra  Stato e “Cosa Nostra”.
Con questo film, il maestro del cinema Bellocchio si confronta ancora una volta con la storia della nazione, andando a toccare i tasti dolenti e le ferite sempre aperte nella memoria collettiva  (ricordiamo, ad esempio, tra i titoli precedenti, Buongiorno, notte, sugli “anni di piombo” e il  terrorismo, e Vincere, ambientato in epoca fascista). E lo fa, oltre che col suo stile personale, psicologico e introspettivo, in modo crudo e diretto: la carneficina della prima parte della pellicola è un vero e proprio pugno allo stomaco, che a tratti ha richiamato alla memoria del sottoscritto
l’impressionante incipit di Salvate il soldato Ryan (di S. Spielberg), con i soldati americani che cadono inesorabilmente sotto i colpi dei tedeschi, durante lo sbarco in Normandia.
La spietata brutalità di Cosa Nostra marchia subito a fuoco il racconto, che tocca l’apice “pirotecnico” (come contraltare dello sfarzoso e grottesco festeggiamento, in apertura, dedicato a Santa Rosalia) quando sopraggiunge la strage di Capaci, in cui perse la vita il compianto giudice Giovanni Falcone. Si tratta di uno dei momenti più bui e apocalittici della nostra Repubblica, sintetizzato con rara efficacia visiva.
Per non creare fraintendimenti o inopportune riabilitazioni, nemmeno la sceneggiatura fa sconti ai protagonisti: i mafiosi sono rappresentati inequivocabilmente come mostri feroci e senza scrupoli, ridotti poi a bestie in gabbia, in una sorta di zoologico girone infernale, durante il processo nell’aula bunker.
Ripercorrendo i momenti salienti di un’epoca che ha registrato un esponenziale progresso nella lotta alla criminalità organizzata e nella riaffermazione della legalità da parte delle istituzioni, il film è imperniato sulla figura ambigua di Buscetta, boss pentito che tenta in ogni modo di sopravvivere e vendicarsi, rinnegando – dopo l’iniziale opposizione a trasgredire il giuramento di gioventù – il codice etico criminale, nel momento in cui prevale la consapevolezza di essere stato “tradito” proprio da quel mondo, che non ha rispettato i patti impliciti. Dall’omertà alla verità il passo è
breve, ma anche foriero di inevitabili conseguenze, come fardelli da portare sulle spalle per il resto della vita. Ed è il presunto richiamo alla struttura familistica della mafia a risultare sarcasticamente caricaturale, quando, nella lotta intestina per il potere, sono proprio i legami e gli affetti di sangue ad essere recisi e decimati, in una folle spirale di violenza senza fine.
Lungi dall’apparire quale eroe sacrificale, il personaggio di Buscetta esprime, attraverso dubbi e contraddizioni, il corto circuito di un sistema di dominio che richiede un’adesione totalizzante e paramilitare, in estrema antitesi con i principi democratici ed egualitari alla base della nostra Costituzione, che regolano la convivenza civile e fondano la pace sociale.
La scelta del tradimento, può essere vista, in chiave evolutiva esistenziale, come tentativo di riscatto nei confronti di un copione già scritto, come possibilità per intraprendere nuove e inedite strade, anche in termini di ridefinizione della propria identità, tagliando i ponti con il proprio passato e le proprie origini. La mafia come metafora di sottomissione, conformismo, cieca obbedienza può essere allora sconfitta solo se ci apriamo alle sfide del cambiamento e della crescita, se pratichiamo l’infedeltà a quell’immagine di noi imprigionata nello specchio delle nostre sicurezze e dipendenze.
Come ulteriore tratto distintivo della cinematografia dell’autore, anche in questa opera la dimensione onirica irrompe prepotentemente nel piano della realtà, sottolineando il ruolo dell’inconscio e del livello fantasmatico nell’orientamento delle nostre scelte e azioni: in particolare, la suggestiva sequenza notturna finale pare alludere al compimento simbolico di una missione mai intimamente rifiutata, emblema di un’appartenenza che ha segnato indelebilmente il destino del controverso protagonista.

 

Recensione di Alessandro Cafieri tratta da “Conflitti – Rivista di ricerca e formazione psicopedagogica” (www.cppp.it/conflitti)