La donna che canta (Incendies) di Denis Villeneuve


Canada, 2010

130 minuti

Quando il notaio Lebel legge a Jeanne e Simon Marwan il testamento della loro madre Nawal , i gemelli restano scioccati nel vedersi porgere due buste, una destinata ad un padre che credevano morto e l’altra ad un fratello di cui ignoravano l’esistenza. Jeanne decide di partire subito per il Medio Oriente per riesumare il passato di questa famiglia di cui non sa quasi nulla. Simon, per quanto lo riguarda, non ha bisogno dei capricci postumi di quella madre che è sempre stata lontana e avara di affetto, ma il suo amore per la sorella lo spingerà presto a unirsi a Jeanne per setacciare insieme la terra dei loro antenati sulle tracce di una Nawal ben lontana dalla madre che conoscevano. Spalleggiati dal notaio Lebel, i gemelli risalgono il filo della storia di colei che ha dato loro la vita, scoprendo un destino tragico marchiato a fuoco dalla guerra e dall’odio e il coraggio di una donna eccezionale. Adattamento dell’opera di successo di Wajdi Mouawad, Incendies (Incendi) è una travolgente ricerca iniziatica che coniuga l’orrore della guerra al singolare, rivelando con forza una poesia d’eredità indelebile del ciclo della violenza e la potenza inaudita della resilienza.
I due figli, dopo avere intrapreso uno snervante viaggio alla volta delle proprie radici, scoprono la vita che la loro madre non ha mai raccontato loro e, soprattutto, vengono a contatto con una storia di violenza e vendetta inaudite che si riverberano ancora oggi, inaspettatamente, nelle loro esistenze.
“Indefinibile il cotesto (genericamente mediorientale) per volontà dell’autore che non vuole parlare di una guerra, ma della guerra. La visione ci costringe a passare – con una forza straordinaria da risultare spesso insostenibile – per l’inferno dell’odio che in modo lapidario in una frase che la stessa Nawal pronuncia durante ai suoi patimenti: ‘Voglio insegnare al mio nemico quello che ho imparato dalla vita’.” (Roberta Ronconi, ‘Liberazione’, 9 settembre 2010)
“La morte può essere un inizio, dice il notaio: infatti è di lì a poco che parte la storia. (…) ‘La donna che canta’ di Denis Villeneuve è intessuto come un affascinante viaggio avanti e indietro nel tempo e nello spazio, strutturato in capitoli ognuno dei quali svela un sorprendente pezzo del puzzle. Considerato che il racconto si affida alla suggestione dei luoghi, dei paesaggi, dei volti più che alla parole, non viene da pensare, come invece è, che il film si ispira a una pièce teatrale. (…) I temi sono dunque quelli dell’esilio e della guerra, ma ad emergere è il cosmico orrore di una violenza fratricida che ne ingenera altra in un crescendo che incide pesantemente sui destini individuali: con le colpe che ricadono di padre in figlio fino alla catarsi finale, come nella tragedia greca. C’è un senso di sacralità nel film di Villeneuve, per il modo in cui restituisce importanza alta alla responsabilità morale. Un risultato al quale contribuiscono interpreti di grande intensità, da Lubna Azabal a Rema Girard.” (Alessandra Levantesi Kezich, ‘La Stampa’, 21 gennaio 2011)
“L’ammirevole film di Denis Villeneuve, altro nome da segnarsi, evita però le trappole del genere per trascinarci con sguardo fermo in un gorgo di orrori e rivelazioni che lasciano senza fiato personaggi e spettatori. Svelarli sarebbe un delitto; basti dire (…)che la chiave di questa vicenda familiare contorta come una tragedia greca sta nella spirale inarrestabile di odii e rappresaglie che insanguina il Libano (ma il discorso vale per qualsiasi guerra). Villeneuve non ci risparmia nulla ma non calca la mano, non specula su violenza e atrocità, anzi trova sempre la giusta distanza. Insistendo sui segni che il tempo ha lasciato sul paese e sui personaggi. E su una cornice intellettuale – Jeanne è una matematica di talento – che rende ancora più crudele quel caos ingovernabile. Altro che ‘trucchi da cinema d’azione’ dunque, come ha sentenziato qualche facilone! Siamo su un terreno altissimo, capace di unire sangue e astrazione, il tumulto dei corpi e il lavorio incessante dell’intelligenza e della pietà. Un film da non perdere, oltre che un modello per il cinema di oggi, ‘politico’ proprio perché capace di trascendere la sua materia.” (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 21 gennaio 2011)